Il personal branding ci ha resi isole

“Siamo tutti in competizione per l'attenzione di qualcun altro, ma non c'è reale connessione. La connessione autentica è l'opposto della competizione per il tempo e la risposta”.

Jason Lanier

Ai tempi della scuola adoravo la storia. Già prima di scoprire le scienze sociali, la letteratura e la filosofia, era l'unico insegnamento che sembrava potermi trasmettere qualcosa di avvincente e al tempo stesso concreto, reale (ingegneri, niente battute!). Che si studiassero gli antichi greci, la Francia rivoluzionaria o il Risorgimento italiano, c'era quasi sempre una costante su cui fare affidamento: i circoli intellettuali. Questi piccoli gruppi fatti di pensatori controcorrente, che formavano scuole, accademie o anche solo dei salotti in cui scambiarsi idee. Nelle illustrazioni dei libri di testo, alcuni indossavano una toga, altri una parrucca oppure delle strane giacche: in ogni caso, io li immaginavo sempre come dei poeti maledetti ante (o post) litteram, intenti a discutere fino alle prime luci dell'alba, confrontando idee e difendendo il proprio punto di vista a spada tratta. Di certo, pensavo tra me e me, l'intellettuale era una professione sociale, quasi di gruppo.

Complice la rivoluzione digitale, una ventina di anni dopo quella dell'intellettuale (per lo meno in ambito umanistico) fatica ad essere anche solo una professione. Ma, al contrario di quanto sarebbe avvenuto in altri periodi storici, questo non ha unito o creato solidarietà nella categoria. Chi scrive, comunica e in generale fa del proprio pensiero un lavoro si ritrova a combattere per emergere dai suoi simili. Niente più caffè, salotti o scambi appassionati di idee. Solo uno spietato darwinismo in cui sopravvive chi sa vendere la propria immagine e la propria professionalità. Una deriva individualista fatta di siti, newsletter e di blog spesso ricchissimi, illuminanti e di stimolo per la mente. Tuttavia, incapaci, non per colpa loro ma per una questione di medium, di generare un dibattito faccia a faccia, reale, con un vero contraddittorio. Ottimi prodotti per informarsi, ma che non possono sostituire le relazioni reali: per lo meno sotto il profilo intellettuale.

Insomma, siamo diventati tante piccole isole.


Un'interconnessione superficiale

Inutile girarci intorno, l'avvento del web ha impoverito la cultura. Le redazioni non assumono, i libri e i giornali non si vendono, i contenuti che richiedono più di 15 secondi di attenzione hanno perso appeal. Ma questo è un dato di fatto: lamentarsene serve solo a rigirare il dito nella piaga. L’isolamento degli intellettuali ha un’origine molto più complessa, che coinvolge inevitabilmente anche la tecnologia. I social – potenzialmente un'ottima cassa di risonanza anche per contenuti culturali – hanno infatti creato l'ecosistema perfetto per un clima competitivo, superficiale: performativo. Una forma di interazione veloce e sempre misurabile, fatta di like, commenti e condivisioni. Dove un tempo c'erano dibattiti, corrispondenze letterarie, colloqui e comunità di idee, oggi si raccolgono follower che di rado danno vita a collaborazioni e confronti reali. E certo, una battuta arguta su X o su Facebook può generare anche migliaia di interazioni. Ma possiamo realmente definirle tali?

Un mondo di eccezioni

La logica dei social è quella di vendere se stessi come un marchio (Linkedin docet). Ogni creativo è spinto a esaltare la propria professionalità con il personal branding, differenziandosi dagli altri per attrarre attenzione e costruire la propria community. Invece di fare squadra, si punta ad emergere individualmente. Un fenomeno che è esasperato ancora di più dalla competizione continua per l'attenzione di chi fruisce dei contenuti. Gli altri intellettuali diventano così dei competitor su cui avere la meglio, più che degli interlocutori con cui discutere e confrontarsi.
È vero: oggi puoi tranquillamente autoprodurre film, libri, podcast e blog gratis o per pochi euro, ma è anche vero che distribuirli e pubblicizzarli adeguatamente richiede tempi e competenze impossibili da improvvisare. Riuscire a farlo costituisce un'eccezione. Ma quando questo avviene all'interno di una professione che, come visto, rappresenta già di per sé un'eccezione, allora la sola esistenza di un intellettuale rischia di diventare un miracolo. Figuriamoci il creare un circolo letterario o una comunità di pensatori.

In altre parole, se siamo tutti chiamati a essere delle eccezioni allora chi lo sarà per davvero?

Echo chambers e algoritmi

Dipinto così, il mondo della cultura pre-moderna può sembrare il paese dei balocchi. La realtà è che, prima del Novecento, associarsi e creare una comunità di intellettuali era l'unico modo di coltivare la propria conoscenza. In assenza di un'istruzione di massa, chi altro ci avrebbe potuto indirizzare su particolari letture e pensatori?

Questa scelta obbligata, però, aveva il vantaggio non solo di creare delle vere relazioni, ma anche di farci cozzare contro opinioni e posizioni lontane dalle nostre. Gli algoritmi dei social favoriscono, al contrario, contenuti che si allineano con i gusti e le opinioni già conosciute dai singoli utenti. Questo crea delle "echo chambers" o camere dell’eco, dove le conversazioni diventano sempre più dei soliloqui. Gli intellettuali e i creativi finiscono così per essere circondati (virtualmente) solo da persone che la pensano come loro. Il mondo reale e quello digitale rischiano di scindersi in maniera indissolubile: uno stimolante, intellettualizzato ma limitato al digitale. L'altro tangibile, concreto ma incredibilmente diverso dalla bolla social in cui fluttuiamo. Unire le due vite resta un privilegio per pochi: gli sfrontati, innanzitutto. Oppure per quelli che (eccezioni per davvero) sono riusciti a trasformare la produzione di contenuti (magari online) in una vera professione. Tutti gli altri continuano a svolgere la loro attività di intellettuali sottotraccia, di nascosto. Ben al di sotto dei radar di chi, in effetti, potrebbe avere un qualche interesse a dare vita a un confronto reale, faccia a faccia. E che, invece, si è trasformato in un antagonista.

Ego ingombranti chiusi in gabbia

“Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”

Groucho Marx

La difficoltà di trasformare quella di intellettuale in una professione ci ha resi fragili, rancorosi, indifferenti o ipercritici verso le ambizioni degli altri. Ha reso ogni tipo di produzione o sforzo intellettuale un “all-in”, in cui rischiare tutto. In primis la propria reputazione, ben suddivisa tra digitale e reale. Siamo disponibili a riconoscere la qualità di un lavoro solo nel momento in cui è stato prodotto da qualcuno di molto distante da noi. L’eccezione funziona solo in quanto tale. In caso contrario, quello degli intellettuali è un club di cui preferirei non far parte.


Il guaio è che un atteggiamento del genere produce effetti negativi sia sulla nostra produzione che sulla diffusione del nostro lavoro. Orfani di quel confronto sincero, frequente e paritario che un tempo era sinonimo di accademie, salotti e caffè, rischiamo di perdere il contatto con la realtà. Allo stesso tempo, affidando solo al web i nostri pensieri rinunciamo all’attenzione che potremmo ottenere da chi ci è più vicino. Al marketing tanto semplice quanto efficace del passaparola. In fondo, anche se spesso sembriamo dimenticarcelo, i primi consumatori dello sforzo creativo degli intellettuali sono gli altri intellettuali. Perché ci ostiniamo a vederli solo come dei competitor?