A Complete Unknown, cambiare per rimanere se stessi

Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan

Well, I try my best to be just like I am
But everybody wants you to be just like them
They say "Sing while you slave" and I just get bored
Ah, I ain't gonna work on Maggie's farm no more

Bob Dylan, Maggie's Farm (1965)

“Beh, faccio del mio meglio per essere solo me stesso
Ma tutti vogliono che tu sia esattamente come loro
Dicono "Canta mentre fai lo schiavo" e io mi annoio e basta
Ah, non lavorerò più nella fattoria di Maggie”

Difficile trovare parole migliori dello stesso Bob Dylan e della sua Maggie's Farm per descrivere quella che è stata la sua unicità. La condizione di costante cambiamento, reinvenzione e trasformazione, che lo ha portato ad essere non solo un paroliere acuto, profondo e a volte sublime, ma anche un artista capace di raccontare il proprio tempo, evolvendosi con lui. Un po' come tutti noi oggi, un individuo in cerca di autenticità all'interno di una modernità liquida, dove essere se stesso significa trovarsi in balia del conflitto tra la propria unicità e le richieste di una società che cambia alla velocità della luce. Un'epoca in cui, paradossalmente, essere coerenti con la propria natura implica diventare qualcosa di diverso.

Il vero Bob Dylan negli anni 70

Il film A Complete Unknown racconta proprio questo. L'abilità di Bob di essere sempre riconoscibile come “Dylan”, sebbene in modo cangiante. La sua ferma resistenza al farsi definire, classificare e incasellare, senza tuttavia restare indifferente a ciò che gli accadeva attorno. Un vero e proprio atto di equilibrismo in un'epoca fatta di fratture e contraddizioni.


Lo scioglimento diventa un processo continuo, niente ha il tempo per solidificarsi; è ciò che io chiamo “modernità liquida”. La modernità odierna, come i liquidi, non può assumere una forma per un lungo tempo.

Zygmund Bauman

Da giovane cantante folk a idolo della controcultura e infine iconica rockstar, Dylan (interpretato da Timothée Chalamet) non si è mai cristallizzato in una forma definitiva. Portato all'apice il mondo della musica americana di protesta dei suoi idoli Woody Guthrie e Pete Seeger, sceglie di non diventarne un simbolo o un martire. Passa, invece, all'elettrico con la storica “svolta” del Newport Folk Festival 1965, quando sconvolge gli hippie tra il pubblico strimpellando a tutto volume una Fender Stratocaster nuova di zecca. Il risultato? A differenza dell'amica/amante Joan Baez, sopravvive al Sessantotto e continua a far parlare di sé per altri 60 anni: tanto da ricevere nel 2016 il premio Nobel per la Letteratura.

Dylan è stato un maestro nell'indossare tante maschere: il menestrello, il cantautore, il poeta, il rocker. Impersonificazioni che, però, non l'hanno reso falso, al contrario: gli hanno consentito di cercare una nuova verità di volta in volta diversa. Ma quella che negli anni '60 poteva apparire come una scelta artistica lungimirante, oggi si è trasformata in un obbligo. Mentre i nostri nonni erano la loro professione o al massimo il loro status socio-economico, noi oggi siamo il nostro lavoro, ma anche lo sport che pratichiamo, le pagine social che seguiamo, la serie tv che guardiamo e i libri che leggiamo. Una maschera per ogni situazione e ogni relazione personale che instauriamo. Difficile definirsi o “solidificarsi” in maniera duratura: specie quando c'è sempre in agguato un nuovo stimolo pronto a cambiarci o a mutare le nostre prospettive. Dunque, chi siamo?

Uno scatto più recente di Bob

“gli abitanti di Sirio non sono per noi propriamente stranieri (…), non esistono affatto per noi, stanno al di là di ciò che è lontano e di ciò che è vicino. Lo straniero è un elemento del gruppo stesso, non diversamente dai poveri e dai molteplici nemici interni – un elemento la cui posizione immanente di membro implica contemporaneamente il di fuori e un di fronte

Georg Simmel

Dylan è stato, e continua ad essere, uno "straniero" nel panorama musicale e culturale. Straniero per i puristi del folk, per i rocker integralisti e anche per gli amanti del pop. Anche se centralissimo nel mondo della musica, non si è mai adattato completamente alle logiche della fama o della cultura di massa, mantenendo una distanza che lo rendeva un "altro" rispetto a ciò che il pubblico e la critica si aspettavano da lui. Esemplificativa, in questo senso, è stata la sua scelta di non partecipare alla cerimonia di premiazione per il Nobel nel 2016. È questo, dunque, il nostro destino rispetto al resto della società? Diventare, a seconda dell'occasione, degli stranieri per chi non ha il nostro orientamento politico, non ascolta i nostri stessi podcast o la pensa diversamente sull'ultima polemica social? Condividere attimi di vicinanza, per poi separarci una volta stimolati, cresciuti e mutati? In breve: restare soli?

In A Complete Unknown, Dylan viene mostrato come una persona sola o, per meglio dire, solitaria. La sua schiettezza e la sua attitudine al lavoro gli rendono difficile sviluppare rapporti duraturi: con Elle Fanning, Joan Baez e anche con Pete Seeger. Eppure, abbinata al suo genio, questa non appare mai come una condizione negativa o dolorosa. È, al contrario, un’opportunità per la sua crescita personale e artistica. Un terreno fertile per l'autoconsapevolezza e la riflessione interiore: un passo necessario per mantenere la propria indipendenza espressiva e rimanere fedele a sé stesso in un mondo che tende a forzare l’individuo nei confini delle aspettative sociali.

Insomma, la modernità porta, forse, a essere solitari. Ma per quanto negativo, questo distaccarsi può diventare un atto di libertà. Un passo indietro che ci permette di abbracciare tutte le sfaccettature della nostra realtà quotidiana, scegliendo quando conformarci alle sue etichette o quando andare oltre ed evolvere: ma sempre per rimanere noi stessi.