Vivere per il weekend: un incubo moderno

A dirlo fa quasi impressione, ma da circa 125 anni la mia famiglia vive nello stesso quartiere, all'interno della stessa città. E proprio ora che mi preparo a lasciarlo (mi allontano giusto di qualche chilometro, non temete), un vecchio aneddoto di mio padre mi offre il gancio perfetto per iniziare il pezzo di questa settimana.

Quando i miei nonni avevano l'osteria, non chiudevano mai!”, mi diceva spesso, magari quando si finiva a parlare di vacanze e di viaggi. “Dal 1971 una legge li ha obbligati a scegliere un giorno settimanale di riposo, ma fino a quel momento loro lavoravano sempre, tutto l'anno”. Uno shock per il piccolo me, che ai tempi della scuola pensava che l'intero universo si basasse sull'alternanza tra quadrimestri, vacanze di Natale e (liberazione massima) vacanze estive. “Come facevano a non fermarsi mai?”. “Se alla fine non andavano in vacanza, cosa aspettavano con ansia durante tutto l'anno?”. “A quei tempi non avevano ancora inventato lo stress?”. Ero incredulo.


Nata tra '800 e '900, quella dei miei bisnonni era la prima generazione ad aver lasciato la campagna per la città. L'agricoltura per i servizi. Avevano raggiunto un discreto benessere, ma nel boom economico del secondo dopoguerra avevano già superato i 50 anni. Insomma, possedevano tutte le comodità della società dei consumi, ma una mentalità quasi pre-moderna. Erano a metà tra quelle che il sociologo Emile Durkheim chiama solidarietà meccanica e organica.

In altre parole, il loro lavoro era la loro vita. Ma non nel senso che daremmo oggi a questa affermazione: non erano dei workaholic. Piuttosto, la loro identità non era scissa tra lavoro e tempo libero. Erano sempre le stesse persone. Che servissero vino o che portassero loro figlio allo stadio. Le due componenti si mescolavano a tal punto da essere indistinguibili.

Oltre un secolo dopo, quasi tutto è cambiato. L'arrivo della modernità ha eliminato quei problemi di sussistenza che (per lo meno agli inizi) costringevano i miei bisnonni a lavorare senza sosta. Allo stesso tempo, ci ha permesso di studiare, fino a poterci permettere di PRESTARE le nostre abilità intellettuali e il nostro tempo senza ESSERE il nostro lavoro. Ma questo ha anche reso impensabile una vita senza vacanze, senza weekend, senza una settimana perfettamente scandita dall'orario d'ufficio. Senza sfoghi e momenti eccezionali, in cui tornare a essere noi stessi, in contrasto a una normalità in cui digrigniamo i denti e il cervello in cambio di uno stipendio.

In altre parole, abbiamo barattato la miseria con l'alienazione.


Ho bisogno di staccare”

Il lavoro moderno non può sopravvivere senza una cultura dell'auto-distruzione. La ricerca del piacere e l'evasione aumentano per far fronte al dolore del burnout e della stanchezza infinita. Il lavoratore che si nutre del proprio lavoro non ha bisogno di annullarsi nel piacere”

Omar F. Najjarine (“The Autodidact” su Substack)


Ora, non c'è nulla di male nella vacanza, nel riposo e nel piacere: anzi. L'otium di cui parlavano i romani è la base del pensiero astratto e della speculazione (specie in ambito umanistico). E non c'è niente di male neppure nel fare un lavoro che non ci piace per pagare le bollette. Il “patologico” (sempre per citare Durkheim) arriva quando questa diventa la norma. Quando intere generazioni (millennial ma non solo), cresciute con la possibilità di coltivare le proprie passioni, scegliere i propri studi e l'ambito in cui lavorare, si ritrovano ad abortire un pezzo del proprio sé per arrivare alla fine del mese. Magari anche per inseguire un risultato, senza sapere quale questo sia di preciso. Il tutto con l'orizzonte di una piccola gratificazione futura.

Qualcosa, è evidente, dev'essere andato storto.


Un mondo alla rovescia

Ogni ambito del nostro mondo premia la produttività e l’efficienza. Anche la quotidianità è spesso vista solo come un mezzo per raggiungere qualcosa, non come un fine in sé. In quest'ottica, l’idea di costruire una routine piacevole e stimolante diventa secondaria rispetto alla possibilità di "staccare" da essa. Di sgobbare cinque giorni per poi riposarne due, magari partendo per un weekend fuori porta. Di prenotare le ferie con sei mesi di anticipo, organizzando minuziosamente anche i menù dei pranzi e le visite nei negozi di souvenir, senza lasciare spazio al vero otium: quello dell'imprevisto e del contatto umano. Eppure, non l'abbiamo sempre pensata così. Ecco cosa scriveva Erich Fromm a proposito di alcune culture pre-capitaliste:

La cosa più importante di tutte era il principio che la società e l'economia esistono per l'uomo, e non l'uomo per loro. Nessun progresso economico avrebbe potuto essere salutare se avesse danneggiato qualsiasi gruppo all'interno della società”.

Oggi, invece, accade l'esatto contrario. È l'individuo a doversi adattare ai ritmi e ai rigidi standard produttivi imposti dalla società. Forse aveva ragione il me bambino: al tempo dei mei bisnonni non avevano ancora inventato lo stress.


L’illusione della fuga

Che sia in un ufficio o in qualche altra struttura, per molti ogni lunedì alle 9 inizia un estenuante countdown verso le 17 del venerdì. Un percorso tortuoso, che a volte sembra così accidentato da essere impossibile da superare senza una gratificazione finale: un premio, una fuga, l'oblio di un gin tonic.

Fino al '900, era difficile parlare di domanda o consumi di massa. Salvo mercanti e diplomatici, era raro allontanarsi più di qualche chilometro da casa propria. Il turismo non era valvola di sfogo, ma il coronamento di una formazione artistica (vedi i pittori che attraversavano le Alpi per studiare i grandi maestri italiani) o di vita (come nel caso del Grand Tour dei giovani signori a partire dal XVIII secolo). Nelle abitudini di queste e altre categorie sociali abbiamo creduto di osservare i segnali di una vita piena e felice, e ora cerchiamo disperatamente di replicarli. Cene ed esperienze esclusive, mezzi di trasporto veloci, vestiti di buona fattura. Proviamo a circondarci di tutti i simboli della felicità, ma (con nostra grande sorpresa) questa non ci piove mai addosso, se non per brevi intervalli di tempo.

Ancora una volta, è nell'eccezione che cerchiamo la salvezza da una normalità insoddisfacente. Su quest'ultima, però, ci guardiamo bene dall'intervenire.


Divertiti produttivamente

C'è da ammetterlo, non siamo gli unici responsabili.

Quotidianamente siamo bombardati da pubblicità, post e contenuti che ci vendono l’idea che la felicità stia nelle esperienze straordinarie: vacanze perfette, eventi incredibili, momenti indimenticabili. Maldive, Polinesia, Australia: più è lontano e costoso e più fa al caso nostro.

E anche questo ci porta a desiderare più il “prossimo grande evento” che il miglioramento delle piccole cose quotidiane. Il loisir di cui parlava il sociologo Edgar Morin, anziché la creatività e il riposo autentico.

Di conseguenza, anche nel tempo libero mettiamo in atto le stesse dinamiche che tanto ci rendono alienati sul lavoro. Programmazione maniacale, ritmi frenetici, riposo inadeguato. Essere improduttivi in vacanza diventa persino più imperdonabile che in ufficio. Ma se non ci riuscirò partendo, allora quando sarò davvero felice?

Tutti i f***uti giorni!

Certo, è una provocazione. E non è sufficiente scriverlo per trasformarla in un'azione semplice, naturale.

Ma è evidente che non possiamo permetterci di confidare solo nei ritagli di tempo per costruirci un migliore equilibrio mentale.

I giorni feriali sono due terzi di quelli dell'anno. Possiamo ridurci a vivere per i festivi?

Migliorare la propria quotidianità richiede un lavoro interiore costante e incredibilmente impegnativo: cambiare abitudini, sviluppare relazioni significative, costruire una mentalità consapevole. Essere presenti in quello che facciamo, fosse anche un lavoro che non ci piace. Magari per trovare un modo per trasformarlo, modificarlo, o abbandonarlo se necessario. La semplice fuga, però, non può essere una soluzione. Tutto quello che abbiamo è il momento presente e spostarci o alienarci non cancella realmente i nostri problemi.

"Dovunque tu vada, ci sei già."

Jon Kabat-Zinn