Che figata l'open space
"Mi piace il lavoro, mi affascina completamente; potrei rimanere seduto per ore e ore a guardare qualcuno che lavora"
Jerome K. Jerome
Conosciamo a memoria gli orari di entrata e uscita di tutti. Le loro forme di saluto e le battute ricorrenti. I momenti scelti per le pause e le scuse in caso di ritardo. Chi lavora in ufficio lo sa bene: quella che si svolge negli open space è una vera e propria vita comunitaria, scandita da tempi, rituali e ruoli ben suddivisi. Un piccolo mondo con regole proprie, che viaggia a una velocità diversa rispetto a quello esterno. Lo dimostra il fatto che, se raccontati a qualcuno di “estraneo”, gli episodi avvenuti tra le mura aziendali risultano assurdi e paradossali, l'ironia incomprensibile, i riferimenti del tutto fumosi.
Eppure, guardando al passato, ci accorgiamo che le cose non sono sempre state così. Analizzando come decine di persone siano finite a lavorare stipate in un'unica stanza, ci si rende conto di come questa scelta raramente sia sinonimo di creatività, produttività o benessere mentale. Come spiegare, altrimenti, la fuga di massa attraverso lo smart working? Ragionandoci un po' sopra, le sorprese non mancano.
In principio fu la fabbrica
Per millenni, il lavoro principale dell’uomo è stato agricolo, all’aperto. Le prime botteghe e i primi uffici amministrativi presso le civiltà antiche erano estremamente piccoli. Nel Medioevo, la cosa più simile all’open space era forse la vita monastica, con grandi refettori e cori collettivi in cui mangiare, lavorare e pregare gomito a gomito coi confratelli. È stato invece l'arrivo delle macchine, alla fine del Settecento, a rendere necessario un unico grande ambiente chiuso in cui collocare tecnologie, operai e scorte: la fabbrica.
Gli uffici, al contrario hanno continuato a essere spazi ristretti, popolati da poche persone: i proprietari, gli amministratori, i burocrati. Negli anni '70 del secolo scorso le cose non erano ancora cambiate. Lo stesso Fantozzi ironizza su megaditte, poltrone in pelle umana e controllo maniacale sui sottoposti, ma non si spinge a parlare di open space. Sebbene sia inserito in un palazzo delle dimensioni del Cremlino, il suo resta un piccolo ufficio in cui lavorano lui, la signorina Silvani e un paio di altre persone.
Per quanto assurdo, la nostra realtà ha superato la fantasia di Paolo Villaggio.
“Non vorrete più tornare a casa”
Tutto cambia con l'istruzione di massa e lo sviluppo di un nuovo settore trainante: i servizi, patria del lavoro intellettuale e dell'open space. Quest'ultimo ha, per lo meno all'inizio, un'immagine frizzante e al tempo stesso dinamica, glamour. Difficile non associarlo al progresso. Negli anni '80 è scelto da agenzie pubblicitarie di grido, dalle redazioni dei giornali e dai primissimi colossi tecnologici come Apple e Microsoft. Viene rappresentato come una fucina di idee, di creatività: alcune (si favoleggia) hanno anche il biliardino e il ping ping. Complici film e serie tv, l'entusiasmo attorno all'idea di lavorare tutti insieme appassionatamente è alle stelle. Per lo meno, finché non diventa la norma.
A essere sinceri, il primissimo esempio di open space risale al 1939. All'interno degli uffici della Johnson&Johnson, il leggendario architetto americano Frank Lloyd Wright creò un'unica grande sala con soffitti altissimi, colonne sottili dalla forma di tronchi d’albero e postazioni singole ben distanziate. I giornali dell’epoca raccontano che le persone “non volevano più tornare a casa” dal lavoro. Una sparata così clamorosa che, va detto, qualcuno avrebbe dovuto iniziare a insospettirsi...
Insoddisfatti cronici
Sia come sia, già nel 2017 si stimava che in Europa utilizzasse l'open space più del 70% delle aziende. Un sondaggio di due anni prima della società Fonciere des Regions, tuttavia, mostrava come i lavoratori fossero tutt'altro che soddisfatti di questo ambiente. Appena il 25% degli italiani (che all'epoca lo usavano più di tutti) ne davano un parere positivo e il 68% vi avrebbe volentieri rinunciato a favore di un ufficio singolo. Chi ne aveva già uno, non a caso, aveva un tasso di soddisfazione del 91%.
Ma, nello specifico, cos'è che non funziona in questo open space?
Una ricerca del Berkeley’s Center for the Built Environment ha individuato questi principali criticità:
Acustica scadente, con “l'effetto alveare” che impedisce una buona concentrazione
Mancanza di privacy, con la possibilità di sentire conversazioni e chiamate altrui
Stando ad una serie di report, inoltre, lavorare “viscini viscini” non sarebbe un vantaggio neppure sotto il profilo sociale:
Anne-Laure Fayard, docente al Politecnico dell’università di New York , ritiene che negli open space “le conversazioni diventino più superficiali e inutili”
L'Harvard Business Review ha evidenziato come negli uffici open space si registrino il 66% in più di congedi per malattia, le conversazioni reali calino del 73% a beneficio della messaggistica istantanea e delle-mail (+67%). Allo stesso tempo, “dipendenti di sesso femminile hanno dichiarato in maniera convinta la consapevolezza di essere iper-osservate e di sentirsi sotto costante valutazione del loro aspetto fisico da parte dei colleghi di sesso maschile”.
C’è dell’altro?
A che pro, dunque, optare per una soluzione che nei fatti è tanto dannosa per la qualità del lavoro e per il benessere psicologico dei dipendenti? La risposta semplice è che l'open space rappresenta il modo più immediato ed economico possibile di accogliere il maggior numero di tecnici e impiegati sotto lo stesso tetto. Il tutto senza perdere neanche un centimetro calpestabile. Insomma, per una questione di efficienza. Chiaramente economica, non certo organizzativa.
Usando una certa malizia, però, è impossibile non notare che questo genere di ambiente assolve (più o meno volontariamente) anche a un'altra funzione ben precisa.
Il carcere borbonico di Santo Stefano, ispirato al Panopticon
"Alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell'anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l'interno, corrispondente alla finestra della torre; l'altra, verso l'esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte [...]. Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell'anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti." "(…) Di qui, l'effetto principale del 'Panopticon': indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere."
Michel Foucault (Sorvegliare e punire,1975)
Proprio come nel famigerato Panopticon, il carcere inventato da Jeremy Bentham nel Settecento, l'open space assicura una sorveglianza costante con il minimo sforzo. Ai manager basta un'occhiata per rendersi conto di ciò che decine di dipendenti stanno facendo, magari al riparo di un ufficio esterno, posizionato vicino o sopra la stanza. A ben guardare, però, questo controllo non è neppure necessario. La disposizione degli spazi rende inevitabile anche una supervisione da parte dei colleghi, che (loro malgrado) hanno sempre sotto gli occhi l'operato dei compagni di open space: tanto da essere i primi a indispettirsi in caso di ritardi, pause prolungate o comportamenti improduttivi.
Persino questo passaggio, tuttavia, è superfluo. Che colleghi e superiori controllino o meno, non fa differenza. La consapevolezza di essere sotto gli occhi di tutti porta automaticamente a conformarsi alle norme imposte. Proprio come il Panopticon, l'open space “assicura il funzionamento automatico del potere”.
Paranoia? Può essere. Non tutte le aziende sono così sadiche da installare decine di scrivanie in un'unica stanza con lo scopo di controllare i dipendenti. Ma a pensarci bene, anche questo non fa alcuna differenza. Il semplice fatto di essere sotto gli occhi degli altri è già sufficiente a modificare inevitabilmente il nostro modo di comportarci.
“Solo perché sei paranoico non significa che non ti stiano seguendo”
Nirvana (Territorial Pissing, 1991)